lA VESPA NELL'AMBRA
UNA STORIA DI AMORE E MORTE NELL'ANTICA ROMA
ANTEPRIMA PAGINE
LA VESPA NELL’AMBRA
Si combatteva la guerra civile. Pompeo era morto, ma i nemici di Cesare conducevano un’accanita resistenza.
Nell’Urbe convivevano Cesariani e Pompeiani in attesa di notizie dai campi di battaglia.
Il dittatore si trovava in Egitto e aveva affidato il governo al magister equitum Marco Antonio. Roma rimase senza magistrati regolari, a eccezione dei tribuni della plebe.
Per Marco Antonio stava diventando sempre più difficile mantenere l’ordine.
L’atmosfera era cupa…
CAPITOLO I
Il frastuono di Roma non cessa mai, di notte si attenua soltanto.
Stringendosi nel mantello, col vento sul volto, Silio guardava le sagome scure dei tetti.
Attendeva una chiamata.
Dal basso, dal brusio torbido della Suburra, giungevano i cigolii delle ruote sul selciato, le imprecazioni dei carrettieri, le urla di richiamo delle lupe.
Attese ancora, ma quando il vento mutò, portando il fetore delle Esquilie, entrò in casa e chiuse la porta sul terrazzo.
Senza togliere il mantello e le armi si sdraiò sul letto, solo per riposare, ma appena appoggiata la testa si addormentò profondamente, con la mano stretta sul pugnale.
Le donne in attesa nella penombra non fiatavano. Infine Priscilla annunciò: «È una femmina. E quanti capelli!».
Nessuna rivolse lo sguardo alla bimba, nemmeno la madre. Un’ancella la portò in una stanza attigua.
Attirando a sé Priscilla, la madre le sussurrò sul volto: «Promettimi
che te ne prenderai cura».
«E perché dovrei?» ribatté Priscilla a voce alta, per farsi udire dalle altre.
«Dicono che…»
Ma Priscilla la interruppe: «Dicono? Se ne dicono tante… Tu dai credito a voci senza fondamento».
«Ti prego» sussurrò di nuovo la madre.
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«Sono chiacchiere di invidiosi.» E con ciò Priscilla aveva chiuso l’argomento.
Era compito di Priscilla presentare la neonata al padre, ma non le sembrava acconciata bene; pretese dalle schiave fasce ricamate e la agghindò in modo da mettere in risalto i lineamenti fini, la pelle rosea senza macchie e la zazzera bruna.
«È inutile» disse un’ancella. «La famiglia ha già deciso.»
«Io ci provo ugualmente» ribatté Priscilla.
Arrivata al cospetto del dominus, depositò la bimba sul pavimento
di fronte a lui.
Il padre non pronunciò la formula di rito che avrebbe introdotto
la nuova nata nella famiglia e non la guardò. Rivolse invece un breve sguardo sdegnoso e carico di antipatia alla medica.
Per Priscilla non era difficile immaginare cosa gli passasse per la mente.
Non si fidava di lei, gli dava fastidio il solo vederla, ma era costretto a sopportare la sua presenza perché la scelta dell’ostetrica
spetta alla famiglia della partoriente. Giravano voci su una fattoria in cui lei faceva allevare bambine abbandonate. Ora il padre si chiedeva se era possibile che la figlia inutile ricomparisse
a scombinare delicati equilibri patrimoniali come nelle commedie, e come capita a volte nella vita reale, che non è da meno delle commedie. Lui sarebbe stato il primo a votare una legge per scacciare da Roma l’arrogante medica, ma Priscilla era protetta da un uomo potente e molto vicino a Marco Antonio.
Lei aveva l’impressione di udire chiaramente i suoi pensieri, ma non si fece intimidire. Non avrebbe dovuto parlare, e nemmeno intervenire in alcun modo, ma non poté stare zitta.
Mormorò qualcosa, un soffio che sentì solo lui, ma agli altri a pochi passi di distanza risultò impercettibile: «È la più bella neonata che vedo da tanti anni». E questo voleva dire: È la più bella delle tue figlie, perché vuoi gettarla via?
Lui la fulminò con lo sguardo.
Priscilla raccolse la bimba e tornò indietro, camminando in un corridoio silenzioso. Tutti, in quel momento, liberi e schiavi, grandi e piccoli, percepivano la precarietà delle loro esistenze sottoposte alla volontà del dominus.
«Vai a chiamare Silio, cercalo da Volumnio» disse Priscilla a un giovane schiavo. «E vieni subito ad avvisarmi quando hai fatto.»
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Una serva le tolse la neonata dalle braccia per prepararla. Sul fondo di un cesto imbottito inserì un sacchetto con dell’oro, tutto quello che la famiglia era disposta a darle, e vi depositò sopra la piccola; a fianco sistemò delle fasce arrotolate, ma nulla che potesse farla identificare.
«Priscilla.» Lo schiavo mandato a cercare Silio era rientrato. «Silio è qui.»
«Bene, torna subito da lui e digli che ho già presentato la neonata al padre, e appena avrò finito di assistere la madre, uscirò dal cancello dell’orto. Mi attenda lì.» Erano parole concordate
con Silio. «Hai capito bene? Ripeti.»
Il ragazzo ripeté.
«Bravo. Allora vai.»
Le si avvicinò un servo fidato del dominus. «Permetti, Priscilla
» disse sollevando il cesto per portarlo via. «Che questa figlia non ricompaia e nessuno possa associarla a noi, ha ordinato il padrone, o mi strappa tutta la pelle a frustate.»
Nascosto in un andito buio, al riparo dal vento, Silio batteva i piedi rimpiangendo il suo letto caldo. Vide il servo uscire da una porta secondaria col cesto tra le braccia e lo seguì.
La piccola non nutrita cominciò a piangere. Il servo procedeva
rapido per sentieri in discesa, verso zone malsane poco frequentate, illuminando il cammino con una torcia. Si allontanò parecchio, infine giunse in un vicoletto melmoso, tra baracche di poveri.
Appoggiò il cesto su un mucchio di rifiuti, poi tese l’orecchio: in un momento di requie del pianto si sentì uggiolio di cani. Frugando tra le fasce della bimba urlante, trovò il suo oro e lo rubò. «A te non serve. I cani sono affamati, non arriverai a domattina» disse a voce alta, quasi un addio.
Si incamminò per il ritorno, ma aveva fatto solo pochi passi che Silio lo afferrò alle spalle e mormorò un ordine, appoggiandogli
una lama alla gola. L’uomo eseguì senza fiatare: consegnò prima l’oro, poi la torcia, e fuggì senza voltarsi indietro appena l’arma fu allontanata.
Silio si avvicinò alla bimba, illuminandola con la torcia. «Salve
a te» le disse. «Sei una vera bellezza. E sei anche fortunata, Priscilla ti accetta come figlia. Hai fame? Tra poco mangerai.»
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Quando la sollevò dal cesto e se la nascose addosso, al caldo sotto al mantello, lei si calmò.
Priscilla lo trovò ad attenderla solo.
«Tutto a posto?»
«Sì. È al sicuro, ma io ho commesso un’imprudenza grave: ho aggredito il servo.»
«Perché?» Priscilla ebbe paura.
«Per recuperare il gruzzolo che aveva rubato. Vedendo l’eleganza
della casa, avevo intuito che fosse consistente. Tu hai bisogno di soldi, e un’occasione del genere non capita tutti i giorni.»
«Ma...»
«Non ho retto, ho dovuto farlo. Ma non preoccuparti, è andata bene. Il posto era deserto e il servo non ha avuto la possibilità di riconoscermi, e poi, pure se sospettasse, non credo proprio che parlerebbe.»
Le porse il sacchetto.
Priscilla lo soppesò. «La madre non è stata avara, dunque.»
«No, per niente. È una bella somma, in grani d’oro e pietre. Basterà per allevarla e costituirle una piccola dote.»
«Non so davvero come sdebitarmi con te.»
«Un modo ci sarebbe...» fu la risposta di Silio. Solo un sussurro
che Priscilla udì perfettamente, ma finse di non aver udito.
Da parte sua Silio finse di credere che lei non avesse udito. Era un gioco tra loro; a volte lei, se era di buonumore, sorrideva divertita. Non gli mancavano le donne, ma avrebbe voluto solo quella che non gli era concessa.
«Che freddo» disse lei, stringendosi addosso il mantello. Silio si fece consegnare la pesante borsa dei ferri e si avviarono verso la taberna medica di Priscilla.
Il vento si era calmato e loro, fianco a fianco in silenzio, come può fare solo chi si conosce profondamente, quasi comunicando col pensiero, arrivarono in Vicolo del Fico. Passavano spesso da lì, anche se si trattava di allungare il cammino; amavano quel luogo dove erano cresciuti insieme.
Superarono il varco sotto i rami del grande fico centenario, inoltrandosi nel vicolo illuminato dalle torce sulla facciata delle due locande e del lupanare in fondo, sul crocicchio.
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Scorsero un assembramento di fronte alla casa della cortigiana Glicera.
«I soliti giovinastri ubriachi che vogliono sfondare la porta della cortigiana e maltrattarla un po’ per vantarsi con gli amici»
disse Silio.
«Queste usanze non si sradicano...»
«Glicera ha la porta robusta, e una sbarra di ferro di tutto rispetto. Comunque proverò a distrarli. Li dirotterò verso la concorrenza. Avviciniamoci.»
Ma i giovani in cerca di svago non c’entravano stavolta. Giunti vicino alla ressa, si fece loro incontro il tribuno Lucio Fabio, a cui Cesare aveva affidato il comando della guarnigione preposta alla sicurezza dell’Urbe, con l’ordine di riferire direttamente al magister equitum, Marco Antonio. Il tribuno era ancora trafelato,
e se lui si trovava là a notte fonda, doveva essere successo qualcosa di grave.
«Volumnia Priscilla» salutò Fabio con grande cortesia, anche se stava parlando solo con una liberta, ma la fama di Priscilla generava rispetto.
«Tribuno. Che succede?» si informò lei con la stessa cortesia. Fabio le sembrava molto nervoso.
«È stato assassinato Gaio Terenzio. Ma per il resto vedrai da te, non ti voglio influenzare. In realtà spero che tu sia disponibile a darmi un aiuto per prendere subito qualche iniziativa, senza aspettare domattina. Vorrei avere elementi concreti da riferire a Marco Antonio all’alba.»
«Io sono a disposizione.»
«Grazie Priscilla. Tanto più che il colpevole ci è sfuggito sotto il naso, aiutato da quel ma...» e qui il tribuno si bloccò: definire maledetto un fico a Roma è blasfemia, cosa non opportuna per un rappresentante dello Stato. «I miei uomini non hanno potuto vedere quale direzione ha preso a causa del vecchio fico» continuò. «Quando s’è intrufolato sotto i rami l’hanno perso di vista. Gli è sfuggito per un pelo.»
Sfuggono sempre per un pelo, commentò Silio tra sé. Il tribuno
e i suoi uomini, dei quali molti venivano dall’agro, non gli sembravano le persone più adatte a inseguire i malviventi nei vicoli dell’Urbe. Per certe attività ci vuole gente temprata alla vita di città fin dall’infanzia.
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«Comunque sappiamo chi è e lo prenderemo» concluse Fabio. «Ma questa sarà certamente una faccenda molto sgradevole, perché l’assassino è Marco Valerio.»
«Davvero?» Le cose per Priscilla assumevano un diverso significato.
Valerio... Scambiò uno sguardo rapidissimo con Silio, col quale lui tentò di comunicarle che non stava a lei preoccuparsi di quel fallito.
«Pare proprio di sì» disse Fabio. «L’uomo accanto a Terenzio
morente era Valerio, ma quando i miei uomini si stavano avvicinando è fuggito. Il che non depone a suo favore.» Non mostrò di notare il turbamento di Priscilla e le fece strada con aria protettiva, spintonando la gente senza complimenti.
La calca si aprì per far passare il tribuno e la medica, e Silio li seguì, attento a non trovarsi troppo vicino. Appena Fabio aveva interpellato Priscilla si era posto tre o quattro passi indietro, ma controllava perfettamente quello che succedeva, ed era sempre pronto a intervenire. Il tribuno gli fece un vago cenno di saluto e gli permise di vigilare su Priscilla, intanto ordinò ai curiosi di allontanarsi, ma l’assembramento magicamente si riformava.
Il segretario del tribuno stava scrivendo i nomi dei testimoni da chiamare il giorno dopo. Mentre la medica si curvava sul cadavere, Silio le appoggiò vicino la borsa e altri le fecero luce con le torce.
Terenzio era a terra. Sembrava che avesse perso fino all’ultima goccia di sangue, ne era impregnato l’ampio mantello su cui era disteso, e anche lo sterrato intorno.
Priscilla guidò le torce a illuminare quanto più le interessava
di tutta la scena, poi disse al tribuno che si poteva fare di più trasportando il corpo in casa di Glicera, per lavare via almeno una parte del sangue e mettere meglio in evidenza le ferite. Fabio fu d’accordo, Glicera spalancò il portone e trascinò una panca in mezzo all’atrio sotto una lucerna. Le guardie vi poggiarono il corpo e poi scacciarono i curiosi, che si erano accodati in tanti.
L’atrio coperto era affrescato con deliziose scene mitologiche su fondo chiaro, un lusso per la zona e per la casa modesta, ma Glicera era una cortigiana con una clientela fissa benestante. Una scala di legno conduceva alla stanza dove lei riceveva i suoi amanti, sotto al ballatoio si aprivano le porte della cucina e del triclinio.
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Silio si fermò discretamente nella parte più buia sotto la scala, appoggiandosi al muro a braccia conserte.
Sistemata la sua borsa aperta su un tavolino accanto al morto, Priscilla si tolse il mantello e indossò un grembiule. Si accostò al cadavere e per prima cosa recise la cintura in vita, cui erano appesi un pugnale nel suo fodero e un borsellino. Sfilò la cintura e la porse al tribuno, che, soppesando il borsellino, disse: «Qui la rapina è da escludere. E questo lo sapevamo».
Priscilla tagliò la tunica del morto e la fascia intorno ai fianchi
e le aprì, mettendo a nudo il corpo. Attese che le serve di Glicera lavassero via una parte del sangue e pregò i presenti di avvicinare le torce. Osservò le ferite, poi nella borsa scelse delle sonde e le infilò delicatamente in tutte le lesioni con espressione attenta, muovendo leggermente le labbra. Si abbassò a guardare controluce l’angolazione dei manici che emergevano dal corpo; esaminò il viso, soprattutto gli occhi, poi braccia, mani e piedi.
Un’idea se l’era fatta, ma aveva dei dubbi, c’erano alcune cose che non la convincevano. Prima di dire la sua, voleva ascoltare la versione di Glicera.
Prese tavolette e stilo per annotare in fretta le cose più importanti,
con l’intenzione di fare una copia del referto a suo personale uso appena tornata a casa. Per scrivere la bella copia destinata al tribuno, estrasse dalla borsa un foglio di papiro e una boccetta di inchiostro già pronto, poi si accinse al lavoro in tutta calma, sistemandosi su uno sgabello proprio sotto la lucerna.
«Preferisco scrivere per chiarirmi le idee» disse al tribuno, «la situazione particolare lo esige, intanto voi potete proseguire con la prassi consueta.»
Fabio non la deluse. «Come vuoi, Priscilla. Nel frattempo farò qualche domanda ai presenti per avere i dati che mi permettano di istruire la pratica subito, prima dell’alba.»
Si rivolse a Glicera: «Hai sentito?».
«Certo.»
Non c’era simpatia tra quei due, notò Silio. Eh... già si conoscevano.
Glicera indossava un solo sandalo dorato e una tunica corta sottilissima, da cui, a beneficio dei numerosi estimatori, trasparivano
le sue grazie abbondanti.
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All’improvviso rabbrividì, la serva le porse una toga e lei se la drappeggiò addosso con cura, come per calmarsi; sembrava ritenere che il peggio fosse passato.
«Che cosa hai visto di quello che è accaduto davanti alla tua porta?» chiese Fabio.
«Niente.» Un ceffone la mandò a sbattere contro la scala.
«Parla. Non mi importa di chi ti protegge, di fronte a una situazione del genere.»
«Ma è la verità. Non ho visto niente.» Evitò con un’agile mossa un secondo ceffone. «Però so molte cose.»
«Bene, allora non farci perdere tempo.»
Indossando l’altro sandalo, Glicera emise un sospiro rassegnato.
«Valerio era su con me» disse poi, indicando con gli occhi il ballatoio e la stanza al piano superiore. «Gli avevo fatto servire dolcetti al pepe e vino di Cipro. Era sdraiato sul letto e piluccava dal vassoio. Abbiamo sentito dei colpi al portone e qualcuno urlare nel vicolo. Lui ha riconosciuto subito la voce di Terenzio, e infatti è arrivata la serva a dire che Terenzio lo stava aspettando davanti all’ingresso ed era fuori di sé dalla rabbia, stava quasi sfondando la porta a calci. Valerio era svogliato, e poi era nudo come un verme. Ma che vorrà questo pazzo a notte fonda? Mi tocca uscire, ha detto. Si è infilato solo la tunica, la cintura col pugnale se l’è gettata a tracolla senza nemmeno allacciarla, ha preso una lucerna ed è sceso giù.»
Glicera fece una pausa, come per vedere l’effetto delle sue parole. Priscilla la conosceva bene e le leggeva in faccia che non avrebbe voluto danneggiare Valerio, ma Valerio se l’era cercata, impegnandosi a danneggiare se stesso da tempo. Glicera alzò le spalle in un gesto di sconforto. E che poteva fare lei? A lei conveniva dire la verità, tanto il tribuno avrebbe interrogato anche le sue serve. Inoltre era una schiava, e per gli schiavi c’è sempre il timore della tortura.
«L’hai seguito?» chiese il tribuno.
«No, e perché? Non l’avrei mai fatto. Ho cominciato a mettere
un po’ d’ordine, ma poco dopo ho sentito la serva urlare e chiamarmi, e sono volata giù per le scale. Ho tutto impresso nella mente, è un incubo. La serva era nell’atrio vicino all’ingresso.
Dall’ultimo gradino, attraverso la porta aperta, ho visto
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nel buio del vicolo Valerio illuminato dalla mia lucerna posata a terra. Era inginocchiato e teneva tra le braccia Terenzio, lo ha appoggiato sullo sterrato con delicatezza, si è alzato di scatto ed è scappato. Sono stati attimi. Mentre mi affacciavo sulla strada, sono sopraggiunti i tuoi uomini; lo hanno inseguito gridando, ma se lo sono fatto sfuggire e sono tornati subito davanti alla mia porta. Eh... lui, pure con tutto il vino che aveva in corpo, era molto più veloce.»
E con le ultime parole Glicera si era vendicata per il ceffone.
«Dov’è?» chiese il tribuno.
Intendeva la serva che aveva urlato per chiamare la padrona, era chiaro, e lei, coinvolta in una di quelle situazioni che di norma conducono gli schiavi dal carnefice, si fece avanti tremando.
«Eccomi.»
Confermò le parole di Glicera e disse di non aver visto chi aveva ucciso Terenzio.
«Non è stato Valerio?»
«No. Cioè...» balbettò «io non ho visto Valerio uccidere Terenzio,
ho visto solo che era inginocchiato e gli teneva il busto sollevato. La lucerna a terra illuminava i volti. Forse Valerio diceva qualcosa...»
«Cosa? Che gli diceva? Parla.»
«Non lo so, non ho capito. Intanto si sentivano i passi pesanti delle guardie, ma quando le guardie stavano per raggiungerlo, Valerio ha appoggiato Terenzio a terra ed è fuggito.»
Priscilla scriveva, gli uomini del tribuno si erano allontanati
per continuare la ronda notturna, Silio sostava immobile nell’ombra sotto la scala e nessuno badava a lui. Davanti alla porta d’ingresso i curiosi continuavano a chiacchierare e a fare congetture, ma alcuni di loro si intrufolarono di nuovo all’interno,
e si creò un po’ di trambusto per respingerli in strada. Il tribuno stesso ne acchiappò uno mentre saliva sulla scala con una lucerna, parandola col mantello per non farsi notare troppo, forse curioso di vedere l’alcova e le famose pitture erotiche che ritraevano Glicera.
«Valerio era un tuo cliente da molto tempo?» chiese il tribuno alla cortigiana, quando tornò la calma.
«Da anni, e non solo Valerio, anche Terenzio.»
«Ah... bene. E che ci puoi dire dei loro rapporti?»
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Valerio e Terenzio avevano fatto parte delle bande di Clodio, insieme avevano commesso violenze di ogni tipo: Silio si accorse che il tribuno era molto interessato.
Glicera ci pensò su. «Ecco, io preferivo che non si incontrassero qui perché avevano litigato. Un paio di volte, trovandosi faccia a faccia nell’atrio, si sono insultati. In realtà con le mani non si sono mai nemmeno sfiorati, anche se io lo temevo.»
«E allora?» disse il tribuno.
«Non avrei mai creduto che usassero le armi... Ho pensato spesso a loro e al perché di certi comportamenti, ed ero giunta alla conclusione che nessuno dei due avrebbe voluto rinunciare all’altro, anche se lo odiava. E poi ognuno dei due quando stava qui mi parlava dell’altro, poiché ero l’amante preferita di entrambi.
Mi affidavano anche dei messaggi, ma io non li riferivo.»
«Ah... E che ti ha detto ieri sera Valerio?»
«Le solite cose... non ne potevo più. Ha detto che ormai l’amicizia
era finita, non solo perché Terenzio, come tutti del resto, lo derideva per aver rifiutato le cariche offerte da Cesare, ma perché lo aveva truffato.»
«E in che modo?»
«Ah, questo non lo so. Da parte sua Terenzio la sera prima mi aveva ordinato di chiedere a Valerio a quale scopo aveva fomentato disordini, ingannato molti giovani legandoli a sé con pericolose lusinghe, combattuto nelle strade e ucciso. Riferisco esatte parole sue, questo sia ben chiaro. Ormai, da quell’ottimo oratore di bella presenza che è, avrebbe dovuto raccogliere la mercede dei suoi delitti. Sempre parole sue... Quando lo incontrava
gli diceva in faccia, e lo ripeteva dovunque, non solo qui da me, che ormai, dopo il rifiuto opposto a Cesare, non gli rimaneva che attaccarsi alle pietanze, come Lucio Lucullo, se almeno si fosse potuto permettere un cuoco.»
«Ah...» Il tribuno Fabio si concesse un sorriso.
Silenzioso e quasi invisibile sotto al ballatoio, Silio pensava che il giovane tribuno non era tipo da fare chissà quale carriera, anche se ci sperava tanto. Andiamo... queste erano cose di dominio pubblico, altrimenti Glicera non le avrebbe riferite. Lo sapevano tutti che quei due, Valerio e Terenzio, erano diventati la spina nel fianco di chi si era servito di loro al fine di creare disordini per i suoi scopi, e ora che li aveva raggiunti, i suoi scopi, voleva
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l’ordine. Questo solo a causa del voltafaccia di Valerio, perché Terenzio era invece perfettamente allineato. Ma pareva che il tribuno ci tenesse a far vedere che svolgeva bene il suo lavoro.
«Delle truffe tu sai qualcosa» disse il tribuno, e mollò un ceffone improvviso che colpì Glicera in pieno volto e quasi la tramortì.
Con una mano su una guancia, lei sembrò confusa stavolta, esitante; forse già si immaginava nelle mani del carnefice. Allarmato,
Silio uscì un attimo dall’ombra, il tempo di incontrarne gli occhi. Glicera si zittì.
«L’hai voluto tu» disse il tribuno, lanciando uno sguardo malevolo a Silio. «Sei una schiava, potrei farti torturare a morte,
ma tu qualcosa vali, e io non voglio danneggiare troppo il tuo padrone. Farò torturare ferocemente le serve. E poi, se non otterrò niente di interessante, sarò costretto a passare a te.»
Le due donne, rannicchiate in un angolo, cominciarono a piangere e a supplicare.
«Parlo» disse Glicera. «Valerio sosteneva che Terenzio si è arricchito sfruttandolo.»
«In che modo?»
«Non lo so. Ma ormai Terenzio si preoccupava dei ripensamenti di Valerio, aveva paura che tirasse in ballo certi vecchi affari, cose morte e sepolte dei tempi di Clodio il Bello, e raccontasse alcuni particolari che avrebbero chiamato in causa molte famiglie.»
Silio era sinceramente stupito di quelle parole. Molte famiglie... Le serve smisero di piagnucolare, ma sembravano più spaventate di prima, e anche il tribuno non poté nascondere lo stupore. Ma chi ci teneva a sollevare certi coperchi? Comunque Glicera non aveva fatto nomi, ancora.
Il tribuno cambiò argomento.
«Sì, sì, ma ormai queste sono cose passate, inutile rivangare...» disse. «Invece, tornando a noi, anche se il tuo pensiero serve a poco, tu che impressione hai avuto? Credi che Valerio abbia ucciso Terenzio?»
Glicera ci pensò su e poi disse: «Non lo so, secondo me no. Certo però... è difficile negare l’evidenza... solo lui era vicino a Terenzio, non c’era nessun altro...».
Priscilla ritenne giunto il momento di intervenire.
«Il mio referto è pronto» disse a Fabio, porgendogli il papiro.
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«Naturalmente non mi offenderò se cercherai la consulenza di altri medici.»
«Sono certo che Marco Antonio me lo imporrà» disse lui.
Priscilla lo sapeva, i Romani si fidano poco delle medicae, anche se vergini e votate alla scienza.
«Ma ti ringrazio. Per quanto mi riguarda, il tuo parere è fondamentale,
e aver risparmiato del tempo risulterà utile» disse ancora Fabio cortesemente.
Priscilla parlò con voce fredda, impersonale.
«Ho riscontrato tredici ferite causate da uno stilo. Dall’angolazione
ritengo che il primo colpo sia stato inferto allo stomaco dal basso. Forse Terenzio stava parlando con il suo assassino, nemmeno si è accorto della lama che si stava avvicinando. Poi l’assassino ha sollevato in alto lo stilo e ha sferrato rapidamente
altri colpi, nove per l’esattezza, al petto, alla gola e al volto, favorito dalla sorpresa e dal dolore improvviso del colpo allo stomaco, anche se Terenzio era un combattente nato. Uno di quei colpi ha leso l’aorta e ha causato un’emorragia interna.
Terenzio è stramazzato a terra agonizzante, l’assassino si è curvato su di lui e ha inferto altri tre colpi; un fendente è stato deviato dal borsellino con le monete e ha trafitto la parte alta di una coscia, ha tagliato l’arteria femorale e ha causato la massiccia emorragia che ha inondato lo sterrato, affrettando la fine, ma è ragionevole credere che fosse diretto all’inguine, infatti altri due colpi hanno trafitto l’inguine.
Poi qualcuno ha sollevato da terra Terenzio morente, e questo si vede da come il sangue ha imbrattato le vesti. Dalle testimonianze
sembra che sia stato Valerio.
Ritengo molto probabile che Terenzio conoscesse il suo assassino,
perché non ha preso il pugnale che portava alla cintura e non ha nemmeno tentato di estrarlo dal fodero; al contrario, per quanto fosse un uomo diffidente, gli ha permesso di avvicinarsi tanto da essere colpito da lui di fronte, anche se all’improvviso. Non si è difeso, non ha nulla sotto le unghie. Tutti i particolari di ogni ferita sono sul referto.»
«La tua indagine conferma la colpevolezza di Valerio» disse il tribuno Fabio.
«No, la colpevolezza di Valerio è da provare. Possiamo presumere
che Valerio, sopraggiunto sulla scena del crimine, abbia
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tentato di sollevare da terra Terenzio, morto poi tra le sue braccia. Non dimentichiamo che Valerio è stato chiamato da Terenzio mentre pensava ai fatti suoi intrattenendosi con una cortigiana, e non è stato visto uccidere Terenzio. Inoltre, poiché ormai erano nemici, probabilmente Terenzio, non fidandosi di lui, non si sarebbe fatto colpire di sorpresa.»
Il tribuno sembrava perplesso. «Continua» ordinò.
«Non solo» proseguì Priscilla. «Da quello che abbiamo sentito finora Terenzio è stato perso di vista per qualche momento, il tempo impiegato da Valerio per indossare la tunica e scendere giù.»
«Indossare la tunica e prendere l’arma, prima di scendere giù.» Fabio la corresse ritrovando il tono cortese, e si rivolse a Glicera: «Che arma ha preso?».
«Non ci ho fatto caso, mi dispiace, credo un pugnale, comunque
un’arma corta. Io ho visto solo un bel fodero e una bella impugnatura lavorata.»
«Era armato» sottolineò Fabio, guardando Priscilla negli occhi.
Lei non si fece intimidire. «Esiste un Romano che gira di notte disarmato?» ribatté. «E poi... davvero Terenzio era solo? Un ricco nobile solo di notte... mi sembra una cosa improbabile. Forse c’è qualcun altro implicato in questa storia.»
«Secondo me uno come Terenzio poteva essere solo» disse il tribuno, e si rivolse a Glicera: «Che faceva di solito?».
«Di rado era solo» disse lei.
«Dunque poteva esserlo» disse il tribuno.
Glicera annuì, a malincuore.
«Perché Valerio non è fuggito subito?» obiettò allora Priscilla.
«Probabilmente voleva farsi dire qualcosa da Terenzio» rispose
il tribuno.
«C’è un altro particolare importante: io scorgo qualcosa di simbolico in questa morte, il che non ci porta a Valerio» disse Priscilla.
Il tribuno pareva sconcertato dai suoi reiterati tentativi di difendere Valerio.
«Tu hai chiesto la mia opinione...» disse lei.
«Certo... l’ho chiesta.» E con questo pareva dire di non essere uomo che si fosse mai sottratto alle sue responsabilità.
«Bene» disse Priscilla. «Mi preme chiarire il mio pensiero.
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Conosciamo Valerio: è un violento, un istintivo. Secondo me, dopo i primi colpi il furore omicida lo avrebbe abbandonato. Invece l’assassino ha inferto i colpi al basso ventre quando già Terenzio era a terra. Con metodo, per avere la certezza di colpire
quella parte del corpo. Valerio avrebbe agito così? Avrebbe infierito così su un uomo a terra?»
Perché non cercare tra le persone che potevano avercela ancora con Terenzio, basandosi sulle rivelazioni di Glicera? pensava Priscilla. Ormai le aveva fatte... Perché non indagare sui vecchi affari? La cortigiana gli aveva dato l’imbeccata, e si era anche esposta... Ma Fabio aveva sentito le parole di Glicera, e dunque non stava a lei rimetterle in discussione. Piuttosto, il tribuno sembrava avere una grande paura dei vecchi affari, prima aveva sollecitato rivelazioni e poi le ignorava.
«Sappiamo» concluse Priscilla «che è intervenuto qualcosa di nuovo nei rapporti tra i due amici, questo sì, certo, e tutto quello che è accaduto ce lo fa pensare, ma non erano mai apparsi propensi a sfogarsi l’uno contro l’altro con la violenza fisica. Anche se si detestavano, non si erano mai sfiorati con un dito, e pure questo va considerato.»
«Ma c’era solo Valerio» concluse il tribuno, ironico.
Priscilla voleva ribattere nuovamente che questo non era certo, ma in quell’istante la porta si spalancò e si fece avanti un liberto del padre di Terenzio seguito da alcuni schiavi con una barella.
«La madre vuole il corpo» disse il liberto.
«Sia» disse Fabio. «Lo concedo, ma domani all’alba un altro medico verrà da voi a esaminarlo, quindi non dovete procedere con i riti funebri fino ad allora.»
Gli schiavi sistemarono il corpo sulla barella e lo coprirono. Il tribuno Fabio restituì anche il pugnale e il borsellino con le monete. Così Terenzio tornò alla vecchia madre.
Espletate le formalità, Silio e Priscilla si avviarono di nuovo verso la taberna medica.
«Che ne pensi?» chiese lei.
«Quei due sicari hanno fatto esattamente la fine che meritavano.
»
«Anche tu sei un sicario.»
«Ma io non ho avuto scelta, loro l’avevano: si tratta di due
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nobili. Io, se fosse per me, non avrei mai ucciso.» Argomento inoppugnabile.
Priscilla passò ad altro: «Citeride ne soffrirà molto».
«Basterà un nuovo gioiello per consolarla.»
«Sei ingiusto.»
«Citeride dovrà farsene una ragione.»
«Citeride non si è mai rassegnata a nulla, o non sarebbe lei.»
«Ti dico io come andrà a finire questa volta. Marco Antonio ordinerà al tribuno Fabio di non indagare oltre e si servirà di questa buona occasione per eliminare anche Valerio, che è diventato un personaggio scomodo e potrebbe riservare altre sorprese. Dopodiché, tolti di mezzo i due mestatori, l’Urbe dirà giustizia è fatta.»
«Questa è la tua giustizia» disse con un certo astio Priscilla.
«Questa è la giustizia che di solito sono costretto ad applicare. Il lavoro sporco lo faccio io.»
«Non si può togliere a Valerio il diritto ad avere un processo.»
«Quello è un uomo che non sarà neppure interrogato in merito
alla morte di Terenzio. Figurarsi processarlo... Verrebbero a galla troppe cose da tenere nascoste.»
«Dunque, secondo te, Valerio è spacciato?»
«Penso di sì. Con buona pace di Citeride.»
«Per domani non prevedo di uscire, a parte una visita al tempio all’alba per i rituali di purificazione, dato che ho toccato
il cadavere, o nessuna paziente vorrà farsi sfiorare da me, nemmeno in punto di morte» disse lei. «E poi terrò lezione e visiterò tutto il giorno in ambulatorio, almeno credo. Fammi sapere se c’è qualche novità riguardo all’omicidio.»
Citeride non riusciva a prendere sonno. Marco Antonio, già grosso di suo, era sdraiato di traverso sul letto, e russava così forte che lei doveva turarsi le orecchie.
Era stanca, aveva cantato e danzato per gli ospiti fino a notte inoltrata: per essere fresca e spiritosa al mattino, avrebbe dovuto riposare da un’altra parte, ma lo evitò, raggomitolandosi in un cantuccio. Sapeva che al suo amante faceva piacere svegliarsi trovandola al suo fianco. Eppure, col passare del tempo, le diventò
insopportabile l’odore del vino, così si alzò, si gettò addosso uno scialle e prese una lucerna per fare un giro della casa.
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Camminò nel corridoio stando bene attenta a non urtare gli schiavi dormienti sul pavimento. I cavalieri della scorta di Antonio,
avvolti nei mantelli, dormivano nell’atrio, chi a terra, su giacigli di fortuna, chi sulle panche. Entrò in cucina a prendere una mela, che poteva contribuire a donarle denti bianchi e alito fresco, e sbocconcellandola continuò il giro.
Il suo patrono Volumnio Eutrapelo l’aveva sistemata nel lusso, investendo grosse somme. Da tempo progettava di fare di lei l’amante di uomini influenti. La dimora non imponente all’esterno, come voleva un minimo di tatto verso le mogli dei prescelti, era una sorpresa per gli ospiti, che, superato l’atrio senza pretese, la scoprivano raffinata e confortevole, dotata di grandi sale di rappresentanza e di un vasto giardino con piscina,
labirinto, e anche una piccola scena. Lei ne aveva tenute chiuse molte stanze in precedenza, ma la casa ormai era appena adeguata al suo nuovo stato di amante ufficiale dell’uomo più importante di Roma in assenza di Cesare.
I Romani per offendere Antonio la definivano uxor.
Il magister equitum si fermava molto spesso a dormire e a mangiare,
a volte con un numeroso seguito, così lei aveva dovuto integrare la servitù e arredare due nuovi triclini. La casa rigurgitava
di gente, ma c’era ancora spazio per tutti, e Antonio non aveva difficoltà a invitare anche personaggi eminenti presso di lei.
Questo non avrebbe cancellato la sua infamia, ma era molto gratificante che le patrizie, e addirittura Terenzia, la moglie intransigente di Cicerone, si rivolgessero a lei per far giungere ad Antonio richieste di favori. Sotto sotto la divertiva che le matrone
illustri fossero costrette a sopportarla e blandirla. Poi lei, secondo la sua personale simpatia, e secondo le indicazioni del suo patrono Volumnio, convinceva o meno Antonio a concedere i favori richiesti. Antonio diceva di amarla, e forse un fondo di verità c’era in questa affermazione, infatti non le rifiutava nulla.
Uscì a prendere aria nel grande giardino battuto da un vento freddo che piegava le piante e sibilava tra le colonne e gli arredi del peristilio, ma non riusciva a coprire il russare degli ubriachi in sottofondo. Anche sui sedili sotto il porticato stava dormendo
qualcuno avvolto nel mantello. Ma erano tutti ubriachi... Sarebbe stato facile per un sicario penetrare nella casa non sorvegliata seriamente e uccidere il magister equitum. Antonio era un soldato valoroso ed era molto forte, ma lei dubitava che dopo le gozzoviglie di quella notte potesse alzare anche un solo dito per difendersi.
Sfidò il vento dirigendosi alla fontana al centro del giardino, davanti all’ingresso del labirinto. Ma... cos’era stato? Le era sembrato di vedere un’ombra... Chi, quando tutti smaltivano la sbornia? Non un uomo della scorta, non uno schiavo, poiché gli schiavi non sprecano le opportunità di riposare. Forse il sicario evocato da lei tentava di raggiungere Antonio?
Non mancava certo di iniziativa, e ragionò freddamente in pochi istanti. Dove chiedere aiuto? Anche gli schiavi avevano fatto baldoria, quando era stato allentato il controllo... Pensò di correre all’improvviso verso il tablinum urlando per avvisare la scorta nell’atrio. Si sarebbero pure dovuti attivare, anche ubriachi, erano là per questo... Ma un’altra idea si fece strada nella sua mente: forse il sicario aveva ordine di uccidere anche lei. Non era un’idea peregrina, in tanti la odiavano.
Cambiò parere, le sembrò opportuno, come prima cosa, mettere
al sicuro se stessa e dopo, forse, dare l’allarme. Si coprì la testa, perché il profumo costoso dei suoi capelli si percepiva anche da lontano, ed entrò nel labirinto. Senza far rumore si inoltrò nel percorso buio tra le mura di fogliame, ma udì un fruscio dietro di sé. Corse disperatamente per rifugiarsi in un anfratto protetto da rami giovani, noto solo a pochi. Lo raggiunse e si nascose, i rami elastici si richiusero dietro di lei. Stette immobile, tenendo ben coperti i capelli, ma presto il nascondiglio fu profanato, si sentì afferrare e qualcuno molto forte la strinse a sé coprendole la bocca con la mano.
Non perse il suo coraggio, ci doveva pur essere una via d’uscita.
C’è sempre una via d’uscita... Avrebbe pregato l’uomo non appena le avesse tolto la mano dalla bocca, avrebbe dispiegato tutte le sue arti di seduzione, lo avrebbe persuaso. C’era una ragione se la chiamavano Dea dell’amore... Ma come aveva fatto a essere così svelto e a scovarla là dentro?
«Sono io» le mormorò nell’orecchio la voce armoniosa, familiare
e cara, di un uomo che conosceva il giardino palmo a palmo, e anche il labirinto. Ecco che si spiegava come avesse fatto a essere tanto svelto. «Non aver paura» disse ancora e la lasciò libera.
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«Marco!» sussurrò lei.
«Ti stavo aspettando» mormorò Valerio. «Sapevo che avresti fatto la tua passeggiatina notturna. Non sei cambiata affatto, ecco anche la mela...»
Gliela scagliò addosso. «Come sei entrato?»
«Ho ancora la chiave del posticum.»
«Ma...»
«Ne ho tenuto un duplicato. Non si sa mai...»
«Ti pareva... Vattene! Non puoi stare qui in piena notte, penseranno
che lo tradisco mentre dorme a pochi passi di distanza. Non è cosa buona nemmeno per la fama di una come me.»
«Gaio è morto. Credono che sia stato io.»
Citeride rimase un attimo senza parole. «Passa per il triclinio giallo» mormorò, «ci vediamo nel mio bagno.» In casa tutti avevano l’ordine di tenersi alla larga da quei due ambienti, in cui di solito soggiornava lei.
Uscirono dal lato opposto del labirinto, Citeride entrò in casa per prima e aprì una porta per Valerio, che la seguiva circospetto qualche passo indietro. Lei si fermò nella sua stanza per assicurarsi
che Antonio dormisse.
Quando entrò nel bagno, Valerio la prese tra le braccia e il calore del suo respiro sul collo passò piano fino alla bocca.
Ci volle tutta la sua forza di volontà per riuscire a sottrarsi al bacio. «Vuoi che ti nasconda? Vuoi rovinarmi?» sussurrò Citeride.
«No» disse Valerio e continuò a baciarla.
Ma lei si sottrasse con più decisione. «Allora perché sei qui?»
«Sss... Stai zitta un attimo. Fammi raccontare e capirai perché sono qui.»
«E allora racconta, svelto» disse Citeride in tono brusco.
«Fatti baciare ancora.»
«No.»
«Agli ordini... Stanotte mi trovavo da Glicera. Bevevo del buon vino di Cipro sdraiato sul suo letto. A un certo punto qualcuno urla giù nel vicolo e mena colpi al portone. Lei si spaventa. Le dico di non preoccuparsi, se il tizio vuole sfondare la porta per divertirsi gratis, lo dissuaderò io, gli farò passare la voglia per tutta la vita. Poi sento fare il mio nome, era Gaio. Sembrava impazzito, ce l’aveva con me, urlava vigliacco, traditore... e altre cose offensive, che non mi va di ripetere... Arriva su la serva
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di corsa ad annunciare che Gaio Terenzio mi aspetta fuori. Gli aveva aperto... be’... Gaio era di casa... Mandalo via, le dico, non è l’ora questa di scocciare la gente, vada a dormire un po’ e ripassi all’alba, quando avrà smaltito la sbornia.
Ma lei torna su un’altra volta e riferisce che Terenzio salirà a stanarmi nel letto della puttana. Allora capisco che è importante, perché lui di solito era gentile con Glicera. Mi vesto, prendo una lucerna e scendo giù. La stupida serva aveva rimesso il catenaccio, o avrei visto di più e forse adesso potrei difendermi meglio. Aprendo la porta vedo due persone che si appoggiano l’una all’altra. Gli ubriachi sono due, penso.
Gaio non era solo. Mi avvicino e l’altro mi afferra, mi spinge addosso Gaio, e fugge. Indossavo la tunica e nient’altro, sento subito qualcosa di bagnato e caldo che conosco bene, sangue. Gaio mi farfuglia qualcosa nell’orecchio, mi scivola tra le braccia e cade a terra.
Io tento di rimetterlo in piedi, ma è un peso morto. Allora gli sollevo la testa e il busto e lo abbraccio e, mentre sono chino su di lui, mi dice: Ci ha fregati tutti e due. Gli chiedo chi è stato, ma lui non risponde più. Alzo lo sguardo in cerca d’aiuto, e a pochi passi da me vedo una sagoma contro il muro di fronte. È una donna, deve essere sconvolta, vedo i suoi occhi che brillano. La mia lucerna caduta a terra, ancora accesa, li illumina.
In quel momento si sentono i passi della ronda. Lei ha paura. Presa dalla disperazione si porta le mani alla testa e il mantello
le scivola sulle spalle. Mi si svela una grossa parrucca e un volto truccato con uno spesso strato di biacca. Ma sbuca dal buio un’altra sagoma, afferra la donna e la trascina via. Mentre lei ancora si aggrappa al muro, si sente il rumore metallico di qualcosa che cade a terra.
Fuggo anch’io, ma passando dove prima era la donna, a tentoni raccolgo da terra la cosa caduta. L’ho fatto d’istinto. Gli uomini della ronda mi inseguono, supero il fico e giro a destra. Loro non possono vedere dove mi sono diretto, glielo impedisce il caro vecchio fico, così smettono di inseguirmi. Comunque mi avevano
riconosciuto. Urlano: Valerio fermati, tanto ti prenderemo.»
Lei era rimasta senza parole.
«Volevo consegnarmi, ma le passate esperienze mi inducono a non fidarmi degli uomini.»
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«Certo, con quello che hai sulla coscienza...» disse lei finalmente.
«Grazie. Ma non solo io.»
Citeride fece un balzo. «E da allora che hai fatto fino adesso? Si sta facendo giorno...»
«Tu dubiti di me.» Valerio lo disse con amarezza. «Mi sono lavato a una fontana, mi sono anche sfilato la tunica e l’ho sciacquata e strizzata. C’è voluto un sacco di tempo per i calzari. Dove volevi che andassi in quelle condizioni?»
Citeride si chinò a toccarli e li sentì bagnati.
«E intanto» continuò lui, «rintanato nel buio, accucciato come un animale, ho riflettuto a lungo su cosa fare per salvarmi. Ho pensato a tutte le persone a cui avrei potuto chiedere aiuto.»
«Ma guarda, e dopo la lunga riflessione hai capito che i Romani
non ti sopportano più. Di tutta la lista ti è rimasto solo un nome: Citeride, la mima che può intercedere presso l’uomo più importante di Roma. Così sei venuto a riallacciare i nostri rapporti» disse Citeride, e stavolta l’amarezza si sentiva nella sua di voce.
«Tu mi hai lasciato» fu la brusca risposta, un’accusa a denti stretti.
«Ti procuro dei vestiti asciutti» disse lei intenerita, saggiando anche l’umidità della tunica.
«Lascia stare.»
«Mi sento colpevole. Forse, se ti fossi rimasta vicina, avrei potuto smussare le asperità del tuo carattere. Ma io non sono mai stata libera, e oggi meno che mai. Volumnio sceglie i miei amanti secondo il suo tornaconto, e in questo caso l’amante è in una posizione così importante per cui devo essergli fedele.»
«Eppure Marco Antonio ti piace...»
«Sì, mi piace stare insieme a lui, gli voglio molto bene, e che il mio lavoro sia gradevole è una fortuna. Però... ti amavo. Se tu fossi riuscito a diventare importante e fossi tu l’uomo scelto dal mio patrono, per me sarebbe anche meglio.»
Valerio sorrise per la prima volta. «Sono venuto da te perché tu puoi aiutarmi. Guarda.» Aprì la mano e mostrò un gioiello.
Citeride lo prese con cautela e lo sollevò davanti al chiarore debole della lucerna. Era un elegante braccialetto da donna, quattro file parallele di sferette d’oro con disegni complicati in
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filigrana sottilissima, e come pendente una grossa ambra in cui era imprigionata una vespa.
«La chiusura è molto delicata. Si deve essere rotta con facilità strusciando contro i mattoni del muro» disse Valerio.
«È un bel gioiello, di buona fattura» osservò Citeride.
«L’avevo notato. La donna non è povera, non basterà una somma di denaro per farla comparire, se non vuole. Per me la fuga è stata un atto di riflesso, causato dalla fuga di lei. Non ho ragionato in quel momento, avevo paura, ero confuso. Ma, ripensandoci, ho fatto bene a fuggire, perché è sparita anche la sola persona che ha visto tutto e sa che io sono innocente. Lei è scomparsa trascinata chissà dove... E dunque cosa deciderà di fare questa donna? E, domanda ancora più importante, cosa deciderà di fare chi è responsabile per lei? Lei mi conosce e ha capito che mi stanno incastrando, ne sono certo, ma ho anche la certezza che sia condizionata da qualcosa.»
«È fuggita per non essere immischiata, ed è comprensibile.»
«Ma sì, anche questo è da considerare. Hai ragione. Comunque io sono giunto alla conclusione che è meglio non consegnarmi se non si trova prima lei, e se lei non mi assicura che mi scagionerà in qualche modo.»
«Su questo sono d’accordo.»
«La sua parola offrirebbe al tribuno una prova a discarica, per cui le indagini non sarebbero concentrate solo su di me. E allora, con tutta la gente che avrebbe avuto dei motivi per fare secco Gaio, credo che me la caverei.»
«Io non ne sarei tanto sicura.»
«Lei andava in giro di notte e, anche se non era vestita come una comune prostituta, era però molto truccata e indossava una parrucca vistosa, perciò non può essere che una danzatrice invitata ad allietare una festa, o una cortigiana...»
«Oh... adesso comprendo cosa sei venuto a cercare qui: la famosa mima danzatrice cortigiana, Citeride, a capo di un collegio
di mime, punto di riferimento nell’Urbe per tutte le mime, potrebbe rintracciare l’unica testimone e potrebbe convincerla a superare le sue riserve e ad andare dal tribuno» concluse Citeride.
Lui non rilevò il sarcasmo. «Sì. Se davvero tu volessi farlo...» mormorò e l’attirò a sé, fino a farle appoggiare la testa sulla sua spalla.
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«Lo farò. Te lo prometto, anche se non te lo meriti... e anche se la parola di una danzatrice non ha tanto valore. Ma chi l’accompagnava?
Un servo? Un lenone?»
«Ci ho pensato mentre mi lavavo... Mi sono reso conto che è un’impresa disperata per me tentare di dargli un volto. Credo che lui non me lo abbia mai mostrato. Era curvo, ma il suo gesto verso la donna è stato molto deciso, anche se non privo di cortesia.»
«Questo non dice granché: forse è lo schiavo di fiducia, che ha salvato la padrona da una situazione critica» ribatté Citeride.
«Comunque, anche se il vicolo è stretto e loro mi erano molto vicini, era troppo buio.»
«E adesso che farai?»
«Mi nasconderò. Conosco tutte le tane della città. Nessuno riuscirà a prendermi se non lo voglio io, ricomparirò solo quando tu mi assicurerai che la donna parlerà.»
Il bagno era rivestito di mosaici colorati, e una parete confinava con i fornelli della cucina; era delizioso, caldo e confortevole. Citeride aveva sacrificato un piccolo triclinio invernale per farlo realizzare e a volte vi intratteneva i suoi amanti. Marco Antonio lo adorava. La grande vasca in marmo verde era comoda, solo leggermente rialzata rispetto al livello del pavimento, e c’era uno splendido letto ornato di bronzo per i massaggi. Valerio si guardò intorno assorto e lei seguì il suo sguardo, quel luogo risvegliava tanti ricordi belli per entrambi. Valerio la sollevò e la appoggiò sul letto sdraiandosi accanto a lei.
Citeride si scurì in volto. «Adesso che ti viene in mente? Ti pare il momento?»
«Direi di sì.»
«Le mie ancelle si stanno già svegliando, non senti i passi?»
«Ti sbagli. È il vento che smuove le imposte.»
«Dove ti nasconderai nel frattempo?»
«Non ti preoccupare» sussurrò dolcemente Valerio e cominciò ad accarezzarla.
Lei tentò di sottrarsi. «All’alba tutti parleranno di te e non potrai più attraversare Roma.» Eppure la voce le si era incrinata.
«So come fare ad attraversare Roma e porterò il ricordo del tuo profumo in mezzo all’abiezione e al degrado dove mi rifugerò,
nei posti più malfamati, tra i peggiori delinquenti e gli schiavi fuggitivi.
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Li conosco bene quei posti, tante volte ci sono andato a reclutare i componenti delle bande o a comprare voti tra i disperati. So come fare per cavarmela in quei luoghi anche da solo.»
Mentre le enumerava con voce dolce tutti i pericoli a cui sarebbe
andato incontro, come se fossero parole d’amore, Valerio non smetteva di accarezzarla teneramente, e Citeride, terrorizzata dai futuri guai di lui, gemeva al tocco delle sue mani, conscia del fatto che ancora lo amava e lo desiderava come nessun altro, e non voleva che soffrisse.
«Tu sai come convincermi, vero?»
Valerio indugiò pericolosamente a fare l’amore, mentre la casa si stava destando.
«Vedrai» disse tra i baci, «le cose andranno bene, e io potrò tornare da te per altre notti come questa. Vorrei anche i giorni, ma chi sono io? Non posso competere col magister equitum.» Poi scomparve come era arrivato.
Lei si ritrovò sola sul letto, ma lo sentiva ancora sulla pelle.
Per non farsi scoprire dalle ancelle chiacchierone, fece sparire gli indizi della breve notte d’amore, si vestì e aprì di poco la finestra sul cortile, per guardare il bracciale alla luce del giorno. Era un gioiello notevole per fattura, una piccola opera d’arte, ma sarebbe stato logico che un orefice tanto bravo usasse un pendente di maggior valore, forse un granato, mentre la pur splendida ambra sarebbe stata perfetta per ornare il coperchio di uno scrigno prezioso. E allora... aveva un significato per chi lo indossava l’insetto imprigionato nel miele d’oro?
Pensò che fosse del tutto inopportuno andare di persona a fare indagini presso i gioiellieri, data la sua posizione di amante ufficiale del guardiano di Roma. Ma a chi affidare l’incarico? In chi riporre una tale fiducia?
Si guardò nello specchio: non aveva un’aria tanto stanca e gli occhi brillavano.
Mentre apriva la porta le giunsero le voci irate degli uomini di Antonio. Litigavano per un mantello misteriosamente scomparso.
Il derubato urlava che si era coricato col mantello, per quanto fosse sbronzo se lo ricordava perfettamente, dichiarava di sapere chi era il ladro, e pretendeva un’immediata restituzione. Stavano arrivando alle mani.
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Citeride sorrise, almeno Marco non pativa il freddo in quel momento.
Tornò nella sua stanza e trovò l’altro Marco, Marco Antonio, in procinto di alzarsi. Aveva capacità di recupero incredibili.
«Buongiorno» le disse, mentre si chinava su di lui a baciarlo.
Citeride gli sorrise, ma non le piaceva ingannarlo; per la prima volta si sentì spregevole a causa del suo lavoro. Era una sensazione frustrante, ma il ricordo delle labbra di Valerio sul suo corpo la scacciò.
«Vedo che hai riposato, mia cara, hai un aspetto splendido.
Ottima cosa. È bene che il popolo pensi che chi lo governa è felice, e io lo sono con te. Usciamo in lettiga, preparati.»
La questione del bracciale doveva aspettare.
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La Vespa nell’Ambra
ISBN 978-88-04-63465-2
© 2015 Mondadori Libri S.p.A., Milano
I Edizione Aprile 2015
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